Come Dire by Stefano Bartezzaghi

Come Dire by Stefano Bartezzaghi

autore:Stefano Bartezzaghi [Bartezzaghi, Stefano]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Scrittura, Study & Teaching, Language Arts & Disciplines, NUOVO
ISBN: 9788852020674
Google: wRDi0eCTwv8C
Goodreads: 13089327
editore: MONDADORI
pubblicato: 2011-10-04T00:00:00+00:00


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Mamma, non dire le parolacce

Come correggere la volgarità

dei giovanilisti d’oggi

Arrazzare, balla, belinata, belino, bernarda, bischero, bocchino, buggerare, cacaiola, cacare, cacata, cacatoio, cacatura, cacca, caccoso, cacone, cappella, cavolo, cazzata, cazzeggiare, cazzeggio, cazzica, cazzo, cazzone, cazzuto, cesso, chiavare, chiavata, ciulare, ciulata, coglia, coglionaggine, coglionare, coglionata, coglionatore, coglionatura, coglione, coglionella, coglioneria, controcazzi, Cristo, culattone, culo, dare, ditalino, fancazzista, fare, fava, fessa, fica, figlio, fottere, fottuto, fregare, fregna, fregnaccia, fregnacciaro, fregnone, frocio, giramento, gnocca, grilletto, incacare, incazzarsi, incazzato, incazzatura, incazzoso, inchiappettare, inculare, inculata, leccaculismo, leccaculo, leccare, maiala, marchetta, marchettaro, marrone, mazzo, merda, merdaio, merdata, merdoso, mezzasega, mignotta.

Ecco. “Mignotta” è il numero 84, esattamente la metà. Sono infatti 168 i lemmi a cui il dizionario Zingarelli assegna il limite d’uso “volg.” e che io sto copiando, con qualche stupore per certe lacune che riscontro. Tutte assieme fanno un po’ impressione, vero? “Volg.” sta ovviamente per “volgare”: sono le parole che andrebbero usate solo in contesti volgari, ovvero parole che hanno il potere di far diventare volgare il contesto in cui ricorrono. Ma forse il concetto stesso di “volgarità” andrebbe oramai riformulato.

Dove è finita, infatti, la bella parolaccia di una volta? La si imparava in età scolare, la si sussurrava con voluttà con gli amici, mai la si sarebbe pronunciata in presenza della mamma o di altro membro della famiglia. I fratelli maggiori non facevano ascoltare ai minori i dischi di Fabrizio De André perché in Via del Campo c’era “una puttana”; anche le telecronache di calcio non insistevano con i primi piani nei momenti critici e nascondevano al popolo i fiori della labiolettura. La mamma non sapeva mai se la parola gergale giusta fosse “scopare” o piuttosto “spazzare” (“Dicono che la signora bionda si sia fatta spolverare dal bagnino”). Il tribunale di Roma dovette chiedere a Tullio De Mauro una consulenza lessicologica sulla semantica della parola “stronzo”, per decidere su una causa che opponeva due scrittori, Dacia Maraini e Giuseppe Berto, fin dal 1962 (quando lei l’aveva usata per definire lui). Brivido di trasgressione: recarsi a mangiare allo storico locale di Trastevere intitolato appunto alla Parolaccia, condimento verbale immancabilmente offerto dallo staff ai clienti. Il ristorante c’è ancora, ma forse dovrebbe denunciare tutti gli altri per concorrenza sleale.

A un certo punto, infatti, la parolaccia ha incominciato a dilagare. Nell’estate del 1974 ci fu il mimico vaffanculo di Giorgio Chinaglia alla panchina di Valcareggi, a settembre la furibonda riemersione di Enzo Majorca in diretta TV, dopo lo scontro con Bottesini (ma non si era riso a maggio, quando era esplosa la bomba di Brescia, piazza della Loggia, e sul nastro dell’agghiacciante referto audio era rimasta traccia anche di un’umanissima e disperata bestemmia).

Del tutto pacifico e deliberato fu invece lo sperimentale “cazzo!” radiofonico del vecchio Zavattini: “Oggi voglio dire una parola che alla radio non si sente mai…” (era il 1976). Degradazione o escalation? Di lì in poi il turpiloquio ha tracimato, diventando sempre più apprezzato (“Ora sto davvero per rompermi i coglioni”, Bettino Craxi, 1985); esibito (“Lei è una stronza”, Vittorio Sgarbi, 1989); programmatico (Anche le



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